Una colomba fra le fiamme, una luce nelle tenebre più oscure. Bisogna dare la giusta enfasi alla visita di Papa Francesco in Iraq, paese sconvolto da 40 anni di guerre e origine di tutti i più recenti conflitti e movimenti migratori nel e dal Vicino e Medio Oriente. Un fatto epocale, che i quotidiani hanno confinato per lo più nella sezione “Esteri”, in coda alle solite paginate sulla pandemia. Ben altra eco mediatica ebbe 57 anni fa la visita di Paolo VI in Israele, primo viaggio della storia di un Pontefice nei luoghi di Gesù. Ma pazienza, a noi basta comprendere che questo secondo, davvero trionfale viaggio papale nell’area più tribolata del pianeta (due anni fa Francesco volò negli Emirati per un primo “abbraccio” con l’Islam sunnita – “Il Papa è mio fratello”, dichiarò Al Tayyeb) ha una sua straordinarietà, un valore storico assoluto per la rinnovata volontà della Chiesa di andare incontro con un coraggioso atto di fede e fratellanza alla sua religione antagonista. Missione difficile, che vuole intanto aprirci gli occhi su un Islam che non scorgiamo, accecati come siamo stati negli ultimi anni dalle violenze inflitteci dell’Islam estremista, radicalizzato. Lo stesso che dal 2014 uccise, scacciò centinaia di migliaia di cristiani nord-iracheni (assiri, siriaci, copti, cattolici) dalle loro case, profanò e distrusse le loro chiese.
In questo nuovo abbraccio con un Oriente che – ha detto il presidente iracheno – “non può essere immaginato senza i Cristiani”, un Papa ha calcato per la prima volta territori che la Storia definisce “La terra di Abramo”, dove tutto è cominciato anche per lo stesso mondo musulmano, quando Dio ordinò al patriarca “vai verso il paese che io ti indicherò”. Territori dove poi il cristianesimo si insediò subito, già al tempo degli Apostoli.
Con le parole “Siete parte di noi” rivolte a Papa Francesco dal capo dei musulmani iracheni sciiti, l’Ayatollah Ali Al-Sistani non si riferiva solo all’odierna convivenza del suo popolo con l’esigua minoranza dei 300.000 cristiani, quasi un quinto rispetto a quasi vent’anni fa, quando l’America occupò il paese innescando una miccia che non s’è ancora spenta. Intendeva anche la stessa comune origine delle due religioni, una comunanza che oggi deve prescindere da rapporti di forza assolutamente sbilanciati: se nel 1900 i cristiani in tutto il Medio Oriente erano il 12,7 % della popolazione, oggi sono il 4,2 %, e in mancanza di un’inversione di tendenza, analisi accreditate indicano che verso il 2050 scenderanno al 3,7 %. Minoranze così piccole subiscono fatalmente anche una negazione di ogni diritto civile, non meno grave della privazione della libertà di culto.
La mano tesa dalla Chiesa all’Islam sciita iracheno (quella col vicino, meno “disponibile” Iran è più lontana) ha premesse e finalità anche geopolitiche, non dobbiamo nascondercelo. La Chiesa si vuole porre come elemento di stabilizzazione in un’area da sempre teatro di “grandi giochi”, seguendo “la logica “stupefacente del Vangelo nella sua voluta e assoluta ingenuità politica”, come ha scritto L’Avvenire. L’obiettivo finale, utopistico o meno, è la pace, per tutti. Che il suo sponsor sia il vicario di Cristo non può che compiacerci. Gli errori della Chiesa attraverso i secoli hanno marciato in parallelo con le persecuzioni del mondo arabo-musulmano, che talora ancora oggi – ha osservato una suora cattolica di Mosul – “tratta i cristiani come agenti dell’Occidente”. In qualche modo le rispettive colpe si rispecchiano ora le une nelle altre, ma è arrivato il momento di andare oltre, constatando, per dirla con l’Ayatollah iracheno, come “gli uomini o sono fratelli per religione o uguali per creazione”.
Sembra un secolo fa quando l’ISIS proclamò che avrebbe piantato anche a Roma le sue nere bandiere. Questa seconda, coraggiosa missione di Francesco nel contrastato mondo musulmano ha rappresentato un fondamentale atto di discontinuità con guerre, persecuzioni, migrazioni forzate. Un progetto immane, nel nome di quel “Fratelli tutti” che ci riguarda davvero tutti indistintamente.
Silvio Lora-Lamia